«Binni, il ribelle»

Intervista di Giorgio Calcagno, «La Stampa. Tuttolibri», 26 marzo 1994, p. 3.

«BINNI, IL RIBELLE»

«Io che ho visto un’altra Italia», dice Walter Binni, a riassumere in sette parole la sua tristezza di oggi. Ma, insieme, io vecchio pessimista leopardiano che non si arrende aggiunge, per dichiarare, in altre sette parole, la sua volontà di sempre. Il grande studioso di letteratura, uno fra gli ultimi maestri del nostro Novecento, ha compiuto da poco gli 80 anni e ha raccolto, in un libro, i saggi che compendiano il suo metodo critico (Poetica, critica e storia letteraria, e altri saggi di metodologia, uscito dall’editore fiorentino Le Lettere) la summa di un pensiero che ci ha insegnato a leggere in modo nuovo il testo letterario, collegando sempre il valore della poesia a quello della storia e della realtà, attraverso il filtro, per Binni decisivo, della «poetica». Nella sua casa romana vive circondato da 35.000 libri, testimoni di un lavoro cominciato a metà degli anni trenta e in corso ancora oggi. Ma non ci sono solo gli studi, nella vita del professore perugino. La critica è un punto d’arrivo, di una esistenza che si è spesa subito in prima linea, nei movimenti antifascisti clandestini, poi nella lotta politica del primo dopoguerra, come deputato alla Costituente per il partito socialista. E lo studioso di Foscolo e di Leopardi non può non riandare, con la memoria, all’Italia di allora, la sua, cosí diversa dalla attuale.

«Forse nel nostro paese è vissuta sempre una doppia Italia. Ce n’è stata una nobile, minoritaria. E poi ce n’è una cinica, conformista, arrampicatrice, rotta a ogni corruzione. Solo in rari momenti della storia, quelli che vengono chiamati lune di miele dei popoli, è emersa la prima». E lui ha avuto la fortuna di vivere uno di quei momenti. Per questo è piú duro il suo giudizio oggi. «Alla Costituente c’erano persone con grandi differenze di idee, ma di quale altezza. Erano Parri, Terracini, Calamandrei, cattolici come Dossetti (ricordo lui per tutti). Se ripenso alla situazione di allora e al risultato che ne conseguí, confesso che mi viene una grande amarezza. Non si tratta solo di idee – che pure hanno la loro importanza – ma di costume morale, di apertura, di comprensione per tutto quello che ora ci viene mancando.»

Lui, da giovane ufficiale, era stato uno fra i piú efficienti corrieri della cospirazione. Aveva aderito al liberalsocialismo di Capitini, aveva tenuto comizi in tutta l’Umbria per conquistarsi un seggio nella prima assemblea repubblicana. Oggi vede un paese «sopraffatto da associazioni segrete, mafia, intrecci con la politica; soprattutto da un’ondata di liberismo selvaggio, contrastante con tutto quello che ha animato la migliore Italia: lo spirito di solidarietà, l’avanzamento dei valori umani.» Confessa, lealmente: «Ci eravamo illusi».

E che cosa può fare, in questa situazione, lo studioso di letteratura?

Di fronte a queste cose è molto importante continuare la nostra attività di scrittori e di critici. Certo, il nostro intervento è di valore condizionato. Ma io sono con Leopardi, il mio poeta e il mio maestro. L’ho sempre concepito come un pessimista ribelle, resistente a una realtà imposta. E io mi definisco un pessimista rivoluzionario, che vorrebbe trasformare questa realtà.

Walter Binni è pessimista rivoluzionario da 60 anni. Il suo primo libro, sul decadentismo, è del 1936, e oggi sta ancora lavorando sui suoi autori, fra Sette e Ottocento. Quanta politica, quanta vita ha travasato nel suo lavoro di critico?

Ho portato nella critica tutti i fermenti della mia vita, non le ho separate mai. Credo di aver capito molti poeti, da Ariosto a Montale, rivivendoli, attraverso la mia esperienza. Se ho avvicinato tanto Leopardi è perché lo sentivo personalmente. I temi supremi della vita e della scomparsa degli esseri cari, della caducità, della transitorietà, io li avevo vissuti nella mia adolescenza: e l’incontro con Leopardi me li ha chiariti.

Decisivo, nella sua formazione, fu un verso di Michelstaedter, che un professore di Perugia gli lesse durante il liceo: «Il porto è la furia del mare».

Mi colpí quel verso, che mi faceva sentire la poesia come inquietudine, movimento continuo, non rasserenante. La serenità, per me, ha scarso significato poetico, se non implica qualcosa di drammatico, di conflittuale. Croce sosteneva l’amore per l’armonia cosmica. Io sono portato a oppormi. Ogni critico ha una sua poetica – altrimenti non sarebbe un critico – e la mia è di tipo tragico.

Ma Binni ha iniziato a operare in una società dove la parola del critico trovava ascolto.

Oggi lo spazio per la critica si va riducendo, dappertutto, come lo spazio per la letteratura. La colpa è solo dei mass media o ci sono anche responsabilità dei critici, in questo?

Sí, ci sono. Una parte della critica è diventata troppo accademica, tecnicistica; non c’è piú il respiro dei Momigliano, dei Russo, non si sanno dare interpretazioni di fondo. Dall’altra parte i mass media chiedono forme piú frivole, la recensione dei giornali resta spesso alla superficie, non si entra nel merito. C’è anche parecchio dilettantismo. Guido Almansi ha scritto un saggio su A Silvia interpretando le «opere femminili» come una masturbazione. E all’Università di Venezia chiamano Brass a tenere lezioni di pornografia. Non faccio del moralismo, è questione di gusto. Ma sono forme aberranti. Sono le frange di un clima che ha i suoi centri piú prorompenti altrove.

Oggi la polemica si è spostata sulle stroncature. Si è sparato da parte cattolica su Arbasino, Tabucchi, c’è stata una contro-sollevazione. Come reagisce Binni?

Sono forme di un estremismo fanatico. Si può essere cattolici e civili. Questa è una forma di inciviltà. Da una parte si dice che non ci sono piú le ideologie, dall’altra c’è una ideologia di destra, arrogante, intollerante. Io non sono un grande ammiratore di Arbasino, non ho letto l’ultimo Tabucchi; ma l’acredine, no.

Quali sono gli autori contemporanei che si sente piú vicini?

Montale. E poi Sereni, Caproni.

E fra i narratori?

C’è il grosso filone del neorealismo, con Pratolini. Pavese. E poi, naturalmente, Gadda.

Nessuno fra i viventi?

Cose di spicco non ne vedo molte. Scomparso anche Moravia, che per me mon era neppure l’optimum, non vedo cime di uguale altezza. Ho letto con interesse Il cigno di Vassalli, l’inizio è molto bello, su temi attuali. Ma mi pare piú facile trovare valori nella poesia: Luzi, Giudici, per esempio.

E gli sperimentalisti?

Non ne sono molto convinto. Un conto è l’interesse per le forme, un altro è il valore. E poi c’è un cerchio anche biologico, per un critico: si ha la possibilità di aderire fino ai limiti di una certa età. Un po’ di invecchiamento c’è sempre.

Lo studioso lo ammette senza malinconia. Lui sa che cosa ha significato la critica per la sua generazione. «Non voglio dire che tutti fossero iper-idealisti. Ma molti di noi non cercavano né guadagno né potere. La cosa che piú ci importava era far vivere la parte di poesia che noi sentivamo essenziale alla storia degli uomini».

Binni cerca di farlo ancora oggi, per non tradire l’impegno preso: lavora sempre al suo Leopardi, essenziale, per lui e per noi, non solo nella poesia.